Il perfezionismo è una trappola
19 Novembre 2019L’interdipendenza
14 Gennaio 2020Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda, 2019 (titolo originale: We are the Weather. Saving the Planet Begins at Breakfast, 2019).
Nel 1942 un partigiano polacco, Jan Karski, affronta un viaggio complicato e rischioso per arrivare in America. Prima di partire incontra una serie di persone della resistenza, raccogliendo informazioni e testimonianze su quanto sta accadendo in Polonia, ad Auschwitz, nel ghetto, nelle campagne. Dopo essere riuscito a sopravvivere ad un viaggio così lungo, tra l’Europa e l’Inghilterra, arriva a Washington nel giugno del 1943 dove incontra Felix Frankfurter, uno dei massimi giuristi della storia americana, ebreo anche lui. Karski racconta cosa sta succedendo in Europa, dallo sgombero del ghetto di Varsavia agli stermini dei campi di concentramento. Alla fine Frankfurter dice, molto onestamente, che non crede a quello che Karski gli ha appena detto. Al che, chi accompagnava Karski supplica di dare fiducia a quello che egli sta dicendo. Frankfurter allora risponde: “Non ho detto che questo giovanotto stia mentendo. Ho detto che non sono in grado di credergli. La mia mente, il mio cuore sono fatti in un modo che non mi permette di accettarlo”. Così, da quel colloquio, non venne nulla. Non successe nulla. I campi di concentramento non furono mai messi in crisi. Essi scomparvero solo quando scomparve il nazismo.
Ora, Frankfurter non metteva in dubbio l’onestà del racconto e della persona. Ammetteva semplicemente la propria incapacità di agire in modo conseguente a quanto aveva ascoltato. Aveva coscienza della sua incapacità di credere, pur sapendo che quello di cui si parlava stava accadendo. Come dice Safran Foer: “La coscienza di Frankfurter non era stata scossa”. Con una parte del cervello aveva capito, con molte altre parti no.
Questa separazione netta tra ciò che capiamo e ciò che ci spinge ad agire, tra comprensione e motivazione mi ha sempre affascinato. Sapere le cose non vuol dire avere il potere di agire. Su questa profonda divergenza tra ciò che sappiamo sul cambiamento climatico, sugli allevamenti intensivi (in breve su quello che ci fa male) e quello che facciamo, si basa il libro di Safran Foer. L’argomento è il seguente: il cambiamento climatico è una tragedia immane che si sta abbattendo su di noi, ma non sembra che ce ne rendiamo conto. Sappiamo anche che in grande parte dipende dal nostro modo di alimentarci, quindi sappiamo cosa c’è da fare, ma, ancora, è molto probabile che non lo faremo. Non faremo nulla. Soffriremo, molti moriranno, l’intero pianeta cambierà faccia, mettendo in serio pericolo la nostra e altre migliaia di specie, ma noi non faremo niente, molto probabilmente. Lo stesso Safran Foer si dispera per la sua incapacità di diminuire l’uso di derivati animali. In modo onesto, egli certifica il proprio fallimento e, su quello, costruisce l’ipotesi di un fallimento collettivo. Perché? Perché non riusciamo a dare una realtà concreta (un dolore fisico) a quello che sappiamo. Il cambiamento climatico è comunque astratto, lontano. Non è una buona storia, dice l’autore. Ha una forma narrativa lenta, contraddittoria, discutibile, va a a toccare abitudini della nostra vita che è difficile modificare, come l’alimentazione. Inoltre, si disloca su tutto il pianeta ed è sempre altrove. In molti casi sono luoghi “marginali”, poco considerati: il paese più devastato finora è stato il Bangladesh, che è anche quello più povero e che inquina meno. E’ come se da una parte del globo uno fumasse e dall’altra parte un altro, che non fuma, morisse di cancro ai polmoni. Può, il primo, smettere di fumare, senza vivere sulla propria pelle cosa sta succedendo lontano dai suoi occhi, dalla sua esperienza? Anche se lo sapesse, smetterebbe?
Quello di Safran Foer è un libro notevole, che mi ha posto di fronte alla questione. E ora, cosa faccio? Intanto la cosa più semplice, più à la page, meno impegnativa, più remunerativa come vanità personale: scrivo un post per dire agli altri che c’è da fare qualcosa! E poi mi guardo intorno e non so da dove cominciare. Mi viene in mente una scena del film Caro diario, di Nanni Moretti in cui lui, in macchina, ripensa a cosa gli ha appena detto il medico. E si dice: “Dipende da me. E se dipende da me, allora sono spacciato”. E così quello che penso di fare (mangiare meno carne, sprecare meno cibo, favorire l’istruzione) non mi pare così risolutivo. Tutt’altro. E intanto il tempo passa. Fa sempre più caldo. E si continua a stare in questa vaga, intermittente, consapevole disperazione.