Perché imparare a ringraziare
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8 Gennaio 2023Ho appreso della morte di Sinisa Mihajlovic, giocatore e allenatore di calcio, dai giornali. Ho letto la solita retorica sulla malattia intesa come battaglia, come lotta, come guerra. A lui si prestava meglio di altri per come Mihajlovic si è posto spesso in campo e nella vita: un duro, un combattente, uno che non molla mai. A me, seguendolo dal 2019, è piaciuto quando ha detto che ha pianto due giorni e poi quando, almeno seguendolo sui giornali, ha voluto fare il più possibile la vita che voleva, curandosi. Quella della lotta, della malattia come guerra, è una retorica insopportabile. Fabrizio Sinisi sul Domani ha pubblicato un articolo su questo tema. Considerare la malattia una guerra è il segno di una visione della malattia, della morte e soprattutto della vita distorta, riduttiva, che misconosce sia la malattia che l’essere umano, la sua essenza, il suo essere vivente. E’ in linea però con la nostra cultura guerrocentrica, che fa della guerra la cifra delle sue azioni, dei suoi pensieri, dei suoi valori. Il calcio, ad esempio, può essere visto come la guerra continuata con altri mezzi meno cruenti. (Si veda ” “Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio” di Alessandro Dal Lago). Siamo una cultura così intrisa di guerra che la si usa come forma mentale, per leggere e categorizzare molte parti della nostra vita. Sinisi aggiunge che è anche lo specchio di come si sopravvaluti il nostro potere quando si estende l’altrettanta stupida retorica del lottare nella vita per ottenere le cose, come se lottare fosse la chiave più importante per ottenere un risultato. È una retorica che Sinisi attribuisce al capitalismo, alla sua tendenza allo sfruttamento. Può essere. È possibile, probabile. Temo che la cosa sia ancora più profonda e antica. Che abbia a che fare con la nostra necessità di dare senso, ordine, prevedibilità alle nostre cose. L’idea che il mio impegno sia proporzionato al risultato mi tranquillizza: ho un appiglio concreto, soprattutto controllabile da me, per sapere se otterrò quello che otterrò. È difficile accettare che i miei risultati dipendono da così tante variabili che il mio impegno ne è solo una componente e spesso ininfluente.
Sinisi poi aggiunge “Il malato non combatte nessuna battaglia: subisce la contraddizione crudele del nostro essere materia. La morte non è un avversario: è il buco nero ingiusto e tremendo, il vortice dell’entropia che tutto prima o poi disgrega. C’è qualcosa di tossico, di profondamente osceno nel definire il malato “un lottatore”.” Anche qui, Sinisi coglie un aspetto importante, ma io aggiungerei che la morte non è un avversario, ma nemmeno “il buco nero ingiusto e tremendo” che definisce lui. E anche questo è il nostro problema. Come lui stesso afferma qualche riga prima: siamo una cultura che sa fare tante cose, ma sicuramente non sa morire. Questo è. Morire è parte della nostra vita. Chissà cosa succederebbe, anche al nostro modo di vedere il lottare, se ci ricordassimo che moriamo, che si muore, che la morte è parte del vivere come nascere, qualcosa di necessario affinché ci sia la vita e che il nostro piccolo ego è solo una piccola goccia nell’oceano del vivente che è l’unica cosa che conta. Forse iniziremo a pensare come dovremmo fare in biologia, non solo per singolo individuo, lottatore, impegnato, che sia, ma per sistemi, per sistemi di sistemi e allora forse anche il cambiamento climatico, l’inquinamento, l’estinzioni di api e tante altre specie, inizierebbero ad avere quel rilievo che meritano.
Un pensiero di affetto a Sinisa Mihajlovic e alla sua famiglia.