Servi vostri – di Luca Sofri
18 Giugno 2019Noi nel linguaggio e la portiera della nazionale – Giulia Siviero
26 Giugno 2019Qualche anno fa, andava di moda parlare di kaizen, il miglioramento continuo. L’idea mi aveva sedotto. L’idea di migliorarsi continuamente, mi sembrava una buona idea, non solo in ambito industriale, ma anche in quello dello sviluppo personale. L’idea di fare un piccolo passo ogni volta, ogni giorno, mi pareva un bel modo di pensare e vivere. Poi, un giorno, qualcuno mi fece notare che così non bastava mai. Questa idea che occorra essere in costante miglioramento implicitamente nasconde l’idea che non vai mai bene, che non sei mai arrivato, che non sei mai a posto, compiuto, completo. Manca sempre qualcosa, c’è sempre qualcosa di altro che si potrebbe fare, capire, aggiungere, migliorare. Così, se il concetto poteva essere accettabile per strutture impersonali, nelle quali le persone agiscono al di là delle loro vite (il miglioramento continuo della linea di produzione della Toyota, può avere anche senso), se applicato alla propria vita, questa idea del kaizen poteva essere rischiosa. Rischiava di generare un’ansia sottile, ma pervasiva; una insoddisfazione costante e ineliminabile. Uno sguardo su di sé colpevolizzante, riduttivo, demotivante. Arriva un momento in cui è lecito dirsi che si va bene come si è, anzi, alla Carl Rogers, io sono già completo, ho già tutto. E vado bene anche se ho mancanze, difetti, lacune, e se non ho sempre voglia di colmarle. Ho cominciato a pensare (e sentire dentro di me) che questa nuova consapevolezza mi dava una opportunità (serenità) nuova: quella di non dover essere qualcosa. Andava bene così. Va bene così.