Perché le persone vogliono potere? Per essere guardate, finalmente.
2 Agosto 2019Cantona, la fiducia e il momento più bello non è un gol
11 Agosto 2019Il 23 giugno 2019 c’è stata Inghilterra Camerun, sedicesimo di finale del mondiale di calcio femminile. Ho comprato l’abbonamento a NowTv per vedere lei, Nchout Ajara, woman of the match della partita precedente contro la Nuova Zelanda. L’ho vista giocare e ho pensato: ma da dove viene? Come è possibile che nessuno parli di una giocatrice così? Ha tecnica, velocità, intelligenza! Così mi sono detto che volevo vederla, questa volta impegnata contro una squadra molto più forte, l’Inghilterra. Dentro di me speravo nel miracolo, in quel miracolo che solo il calcio ti può dare, con la sua imprevedibilità, ingiusta crudeltà per alcuni, giustizia divina per altri.
Il divario tra le due nazionali c’è tutto e si vede. Le inglesi sono ai primi posti del ranking, le mie paladine invece non proprio. Le inglesi segnano subito e sembrano poter dominare agilmente la partita, ma le camerunensi, quando attaccano, possono far male.
Ad un certo punto, il primo disastro: le inglesi segnano, ma l’arbitra annulla. Tutto procede, le ragazze camerunesi tirano un sospiro di sollievo, le altre si disperano, accennano ad una protesta, ma poi, si vede che l’arbitra è distratta, è richiamata dal VAR, dal quale le dicono che il gol è valido. Così rifischia e assegna il gol. Adesso le parti si invertono, le inglese festeggiano mentre le camerunensi si disperano e l’allenatore è furioso. Alcune giocatrici minacciano di smettere di giocare. L’arbitra cinese cerca di calmare gli animi. Alla fine si rassegnano, c’è poco da fare, il gol è regolare. 2 a 0.
Il gioco riprende e nell’azione successiva l’ala camerunense va via sulla fascia sinistra raccogliendo un passaggio filtrante, la sensazione è che la posizione sia buona, nessun fuorigioco, cross al centro e lei, Nchout, di prima intenzione calcia sotto al set e segna. Esulta, esulto, è il gol della speranza, è il gol del miracolo!
E invece no.
Il VAR blocca l’azione. Il gol è sub judice. L’arbitra parla al microfono. Si sta consultando. Le giocatrice del Camerun sono gelate, in attesa, smarrite, qualcuna è già piangente. Si aspetta, si spera, si dispera e poi la mazzata. Il gol è annullato per un millimetrico fuorigioco. Millimetrico, ma c’è. A quel punto le giocatrici si fermano alla panchina e si rifiutano di giocare. L’allenatore, almeno dalle immagini tv, cerca di convincerle a rientrare in campo, lei, Nchout, come alcune delle sue colleghe, piange. L’allenatore, un omone grande e grosso, sembra disperato, cerca di consolarle, abbraccia NChout che sembra volersene andare, la rimanda in campo. Si riprende. Il pubblico fischia l’arbitra, ingiustamente. La partita è segnata.
Io sono attonito. Sbalordito. Non avevo mai visto una cosa del genere in una partita di calcio.
Sono tristissimo per loro, ho assistito a qualcosa di crudele, ma di una crudeltà nuova. Il calcio è uno sport crudele, ma questa crudeltà è diversa, ha una fattura diversa, è, oserei dire, di un altro mondo; ha qualcosa che non si accorda con quello a cui sono preparato, nonostante abbia praticato calcio e guardato calcio per quarant’anni. E mi domando cosa sta succedendo al calcio, ma non solo.
Alla fine arrivo a due riflessioni: una sulla giustizia e il Var e l’altra sulla nostra gestione delle emozioni. Provo a metterle in fila, le cose che ho pensato, senza più guardare la partita, che a guardarla oramai fa male, troppo crudele quello che è successo.
Che cos’è il VAR, anzitutto? A me pare che il VAR sia il tentativo, antico (e tragico), di ridurre, se non abolire, l’ingiustizia. Fino all’introduzione del VAR, il calcio era un luogo dove vigeva una giustizia immediata, limitata e spesso fallibile. La giustizia del calcio era una giustizia legata al momento, all’istante, al punto di vista parziale, finito, di una persona che, correndo, guardando, pensando come un essere umano fischiava o non fischiava qualcosa e che si poteva sbagliare, come si sbagliavano i giocatori, come si prendeva un palo o una zolla poteva deviare il pallone. L’ingiustizia nel calcio non era un accidente, ma parte integrante del gioco, era espressione di una visione del mondo in cui le cose non sono giuste, le squadre che vincono spesso non sono le migliori o non giocano meglio. Con l’aggiunta, molto particolare, che nel calcio, una tale giustizia, precaria e limitata, era indiscutibile, insindacabile, e, soprattutto, irreversibile.
Ricordo quando giocavo a calcio che l’allenatore ci raccomandava di non discutere le decisioni dell’arbitro, di accettarle, in sostanza di giocare e non considerare le decisioni dell’arbitro. Era uno sforzo non banale, era uno sforzo profondo, di chi va oltre le avversità, non si ferma a discutere l’evento ma si dà da fare per modificare il suo modo di interpretarlo. Era un’educazione alla complessità della vita, alla sua sostanziale indifferenza per le cose umane.
Ora, il VAR, anche se non riesce completamente nell’intento, ha introdotto due dimensioni nuove: la reversibilità delle decisioni prese e il senso di giustizia assoluto. L’idea che si possa stabilire in modo asettico, meccanico, cosa è giusto e cosa no. Lo fa un gruppo di persone che guardano una macchina. L’arbitro non è più solo, la sua decisione è reversibile, lo scopo è di ridurre quanto più possibile le decisioni sbagliate. Lo scopo è assicurare il massimo di giustizia, di eliminare la variabile arbitro e di lasciare solo il gioco. Anche se è un altro gioco.
Quella partita tra Inghilterra e Camerun sarebbe stata, senza VAR, sul pari, 1 a 1; con il VAR si era sul 2 a 0. Due partite completamente diverse, due storie da raccontare che non si somigliano nemmeno lontanamente. Probabilmente Nchout e compagne avrebbero perso, ma è chiaro che miracoli non se ne fanno più con le decisioni (sbagliate) degli arbitri.
Cosa implica tutto questo? Innanzitutto, mi pare evidente, un cambiamento del senso di giustizia. Ora il calcio è più giusto, probabilmente, ma è un altro sport. E’ cambiato, perché una sua componente importante (la giustizia parziale e irreversibile) è venuta meno. Le partite saranno più giuste, certamente, ma il calcio sarà diverso. E’ un bene? Probabilmente sì. Anche a me pare che la giustizia sia un valore prioritario da considerare. E questo mi pare comunque un trend più generale: la richiesta di più giustizia in tantissimi ambiti. Questo però implica che le relazioni cambino, e non sono sicuro che sia chiaro a tutti. Se si vuole più giustizia le persone sono costrette a rivedere il loro modo di parlare, di vivere insieme, di relazionarsi. Si pensi a come i movimenti femministi hanno profondamente cambiato la nostra società, le sue forme di espressione e la comunicazione. Si pensi al processo di accettazione da parte della società (ancora molto da costruire, ma in atto) delle comunità LGBT e a tutti quei processi di valorizzazione delle persone che hanno trasformato il modo di comunicare.
A cosa porta tutto questo? A molte cose, credo, ma una mi pare evidente da quel pomeriggio del 23 giugno, grazie alle ragazze inglesi e camerunensi: una profonda trasformazione della gestione delle emozioni. Così come, in alcune parti del gioco, quelle strategiche (gol, espulsioni) non c’è più la possibilità di errore da parte dell’arbitro, non è più possibile un atto irreversibile e quindi un flusso continuo di eventi e reazioni agli eventi, così a livello emotivo, non è più possibile che le emozioni fluiscano libere, immediate, direttamente connesse agli eventi. I calciatori, tutti, dovranno imparare a controllare, gestire, esprimere le loro emozioni. I giocatori e gli spettatori dovranno imparare ad attendere prima di esultare o abbattersi; dovranno imparare a rimandare gioia e tristezza, esaltazione e sconforto, rabbia e soddisfazione a quando sarà possibile e sensato farlo, ovvero una volta che il VAR e l’arbitro o l’arbitra di turno avranno espresso la loro decisione. Si creeranno ancora per molto tempo situazioni imbarazzanti, buffe e crudeli come quella vista sul campo quel 23 giugno. I calciatori e le calciatrici non potranno più esultare liberamente al momento del gol, perché potrà essere revocato di lì a poco. Così come di fronte ad un gol fatto dovranno attendere la sentenza del VAR e quando essa sarà positiva solo allora potranno esultare, magari 5 minuti dopo aver segnato, come hanno fatto le inglesi.
Questa trasformazione del mondo delle emozioni non è necessaria solo nel calcio, ma in molti altri contesti. Penso al mondo del lavoro o a quello della famiglia. Arrivo a dire, con il supporto di lavori come quello di Steven Pinker, Il declino della violenza, che una trasformazione nel modo di gestire le emozioni è parte integrante della nostra epoca, che probabilmente è più giusta, rispettosa di quanto non lo sia mai stata, ma il prezzo, o se volete, la necessità d’ora in poi sarà quella di gestire le emozioni in modo diverso, più controllato, oculato, indirizzato.
Le persone non si potranno (e già in molti contesti non possono) più permettere di reagire all’impronta; non è più possibile dare libero sfogo alla propria automatica espressione delle emozioni. Contesti nuovi, complessi, multiculturali implicano un’attenzione alle nostre reazioni a cui, credo, non molti sono abituati. Bisogna imparare ad attendere, prima di dire qualcosa; rimandare prima di potersi esaltare o arrabbiare. Differire la reazione automatica oppure essere capaci di esprimersi quando è il momento opportuno e non quando viene di farlo. Sono abilità sociali e emotive che occorrerà sviluppare sempre di più, perché il mondo è cambiato. Vuole essere più giusto, reversibile e non affidarsi più all’errore di un arbitro troppo solo.